Tempi Moderni – Le cronache dell’epoca riportano di una contesa ai limiti dell’illegalità, piena di zuffe in campo e cori da censura sugli spalti. Verona-Napoli non è mai stata una partita come le altre, ma quella del 23 febbraio 1986 entrò di diritto nella storia del calcio italiano perché rappresenta una triste tappa nel viaggio dell’odio che divide le due squadre. Sorvolando in questa sede il fattore “rivalità“, preferendo l’amore a qualsiasi tipo di gesto di avversione (e in questo periodo, se ne sente tanto il bisogno), addentriamoci in quell’acceso match di una domenica pomeriggio italiana di metà anni ’80.
V per Vendetta – I tanti tifosi napoletani arrivati con ogni mezzo possibile da i posti più disparati dello Stivale, credevano di trascorrere una giornata di accecante ilarità, memori del 5-0 che la troupe azzurra (eccezionalmente di bianco vestita) aveva rifilato nella gara di andata agli scaligeri, sulla cui maglia si destava orgoglioso il Tricolore. Ma la squadra di Osvaldo Bagnoli, detto “Il Mago della Bovisa” dal nome del quartiere milanese che lo ha visto crescere, aveva programmato nei minimi dettagli il ritorno in uno Stadio Bentegodi gremito in ogni ordine di posto. In particolare, la Fatal difesa gialloblu (senza il giallo per l’occasione) era risultata particolarmente scioccata da quel folletto con il numero 10 che nel pokerissimo rimediato al San Paolo trovò, insieme alle innumerevoli giocate di qualità, anche il modo per dipingere la storia del Calcio Napoli con una perla da antologia dell’arte, non solo del pallone.
Giustizia Privata – Quella che la retrovia di casa pensò, dunque, di mettere in atto sin dal fischio di inizio. Falli, entrate ai confini del codice penale, gomitate e colpi proibiti accompagnavano le avanzate, a dire il vero timide, del Napoli di Ottavio Bianchi, che in virtù di ciò preferì non commentare a fine partita il comportamento degli avversari per la paura di incappare in scomode sanzioni personali. A complicare la giornata degli azzurri non fu solo l’arcigna formazione scaligera, bensì anche il signor Roberto Bianciardi della sezione di Siena, che alla mezzora annullava il gioiello su punizione da 30 metri calciata, manco a dirlo, da Maradona, perché a suo dire non aveva decretato lo svolgimento del calcio da fermo con il fischio di rito.
We were soldiers – I veronesi andavano a mille all’ora, erano in totale dominio del match. E fu così che al 53′ conducevano già per due reti a zero grazie alla bomba dal limite dell’area sganciata da Sacchetti e al penalty trasformato da Galderisi, che poté festeggiare nel migliore dei modi la 100ª presenza in A. Il Napoli nel primo tempo fu completamente imbrigliato dal folto centrocampo veronese che, mettendola sul piano dell’aggressività, aiutato anche dalla confusione scatenata dai tifosi in tripudio sulle tribune, bloccò ogni iniziativa di risveglio partenopeo. A nulla valevano i tentativi annaspanti di portare la sfera nella metà campo avversaria improvvisati dai centrocampisti di Bianchi.
Arma Letale – Certo, i veronesi sentivano già i tre punti in tasca, e la vittoria avrebbe permesso loro di correre veloci verso un piazzamento in Uefa, traguardo comunque minimo per chi, solo pochi mesi prima, si cuciva addosso lo scudetto con la parsimonia di chi aspettava ago e filo da sempre. Ma, a questo punto la storia della giornata di festa gialloblu si interrompe bruscamente. Diego Armando Maradona decise che il tempo dei baccanali veronesi doveva finire e si impossessò in maniera impetuosa, come solo lui sapeva fare, della scena. Chi di rigore ferisce, di rigore perisce: due minuti dopo il raddoppio casalingo, l’arbitro tanto contestato tirò fuori dal cilindro un fischio in favore degli azzurri per un fallo di confusione che vide vittima (o artefice?) il buon Salvatore Bagni. Il 10 si presentò sul dischetto rendendo superflua la cronaca del prosieguo dell’azione. E quando sei stato toccato dalla Grazia divina sei capace di compiere cose che ad una prima analisi sembrerebbero irrealizzabili, se si considera che la Natura ha deciso sì di donarti due piedi da paura, ma non proprio un fisico da corazziere. Al minuto numero 80, dopo un batti e ribatti da forcing finale disperato, Diego svetta (avete letto bene) in mezzo al trambusto dei sedici metri scaligeri, insaccando spalle alla porta con un lob beffardo che fece esplodere finalmente di gioia il popolo napoletano: 2-2.
Braveheart – Il pareggio strappato con le unghie e con i denti risultò un miracolo visto il clima di grande tensione generale che si perpetuò nell’inferno del Bentegodi per tutta la durata della partita e anche oltre il triplice fischio. Questa gara ha poi preso nel corso degli anni i toni della goliardia, sempre con leggere sfumature di astio che in alcune occasioni hanno dato vita a spettacoli poco attinenti ad uno stadio di calcio, dove dovrebbero regnare sovrani i valori del fair play, altro che la fitta nebbia della stupidità prodotta dal becero etnocentrismo. Alla fine, l’atteggiamento degli spalti si ritorse contro i propri beniamini, in quanto divenne il combustibile che fece mettere in moto l’orgoglio degli ospiti che avevano sonnecchiato per i primi 45 giri di orologio. E come ogni grande battaglia passata agli annali, quella della stagione ’86/’86 è accompagnata da una frase avvolta in ammaliante velo di leggenda, pronunciata ovviamente da quello scugnizzo argentino-napoletano con i capelli ricci e arruffati, dai piedi fatati e il corpo goffo: “Ora vado a vendicare i Napoletani”, gridò Maradona alla panchina azzurra, non sapendo che sarebbe riuscito a riscattare di lì a poco più di un anno, l’intera storia millenaria di un popolo, con il suo sinistro toccato dalla Grazia divina.